Le Donne Nude di Pornobello



Pochi giorni dopo aver visto le stampe “pornografiche” di Claudio Cozzolino, esposte in un bar del Ticinese, sono stato a visitare la mostra di arte erotica Shunga, opere risalenti al periodo del recentissimo medioevo giapponese. Lo so, la prendo un po’ alla larga, ma siccome si tratta di immaginario sessuale – erotico o pornografico (“l’erotismo degli altri” secondo una celebre definizione) che dir si voglia -, le coordinate storiche si scompigliano allegramente (o tragicamente) nel gran pandemonio di pulsioni, immagini, censure individuali e politiche, e veri e meno veri slanci liberatori, che in ogni luogo e in ogni tempo, da tutti sono vissute in forme, non già identiche, ma facilmente riducibili le une alle altre.

Guardate – se vi capita – i possenti membri e le cavernose vulve degli Shunga giapponesi come contrastano per il loro realismo e la loro crudezza anatomica con le linee morbide e stilizzate delle figure degli amanti confuse in abbracci indistricabili sullo sfondo di scorci e campiture frammentarie, interiori, a-prospettiche.

E’ la stessa enfasi sulla parte che soverchia il tutto che ritroviamo nella moderna pornografia, ma è anche l’ipertrofismo magico-propiziatorio delle antenate di Venere che fanno bella mostra di sé, in questi stessi giorni, nella Sala Sforzesca del Castello.  E anche questi plurimillenari idoli diventano realistici e naturalistici là dove si addensa il desiderio e la funzione procreativa, sono invece ieratici (una però muove l’anca…), segnici, astratti, nella loro figurazione complessiva. L’organizzazione spaziale degli Shunga, dentro alla quale si anima il groviglio di corpi dal quale emergono con prepotenza i poderosi genitali degli amanti in amplesso, raffigura un ambiente spaziale non privo di profondità, ma diversamente (concettualmente prima che otticamente) profondo. Nella nostra contemporaneità, questo tipo di spazio ha avuto la meglio sulla prospettiva classica e rinascimentale, demolita dai cubisti e relegata a passatempo di frequentatori rari di ormai altrettanto rare nebbie di navigli. Lo hanno studiato gli astrattisti di vario genere, insieme ai linguaggi tribali d’Africa e Oceania, ma anche (e soprattutto) lo hanno adottato i designer, i pubblicitari, i grafici.
Quelle superfici organizzate per suggerire punti di vista ambigui e molteplici, rifuggendo la banale illusione dell’occhio e della sua parte (il vertice lo raggiungono però le illustrazioni al Gengi Monogatari del XII secolo), sono anche – ben rimodellate da tanti passaggi, ma comunque   riconoscibili – nelle donne nude di Cozzolino che si adagiano su quel vuoto lasciato dalla nostra antica prospettiva occidentale, accogliendo le forme, i piani e le campiture assunti da quegli altri mondi di cui si diceva poco fa, filtrati poi attraverso i geometrismi dell’universo formale, segnico ed oggettuale industriale e post-industriale.

Senza tanti problemi, Cozzolino sceglie di farsi interprete di un gusto fresco d’attualità, sfuggendo l’ansia dell’innovazione per l’innovazione, accettando senza eccessive resistenze l’abusata definizione di “pop”, che sta, come tutti sanno, per “popular”, ma solo perché quegli artisti si ispiravano all’arte popolare (cioè a quella fruita dal popolo, attenzione, non prodotta dal popolo, ma piuttosto dall’industria dello spettacolo), non certo perché popolari erano le opere che ne risultavano, invece frutto di operazioni intellettuali piuttosto sofisticate se non decisamente snob (sine nobilitate, secondo un’intelligente para-etimologia). Così è piuttosto evidente un’intelligenza di calcolo, un ammiccamento seduttivo (in tema, dunque), che trova propizio alveo nell’ormai proverbiale benjaminiana assenza d’aura dell’opera infinita nella sua riproducibilità (ma non nella sua fruizione, anzi…), disponibile ad libitum, di nuovo in non sorprendente coincidenza con il soggetto proposto, visto che la pornografia celebra, attraverso l’osceno e l’ipertrofia somatica, la realissima illusione di un desiderio esploso illimitatamente. Se il mondo moderno, come scrive l’artista, ha sdoganato la pornografia, le culture tradizionali, lontane e vicine, hanno celebrato eternamente l’osceno, il “basso corporeo” bachtiniano, nei culi e nelle tette degli arcaici idoli di dee (o puttane) di millenni fa, come nel ventre rigonfio del re del Carnevale dei villaggi e delle città europee, fino a ieri e ancora oggi. Concepite, prodotte e giacenti in attesa nelle viscere infinite dell’universo informatico (la tecnica si chiama “computer grafica vettoriale”, dice l’artista) le donne di Cozzolino tendono, a chi compra e a chi non compra, numerosi inganni: travestite di ironia o nude nella tragedia di varie metafore di quotidianità, sapientemente giocano sull’ambiguità tra ritratto e archetipo, ovvero individuazione e astrazione, riconoscimento e straniamento. Sapientemente calcolata è anche la provocazione, ma non c’è da farsi illusione, né prendere troppo sul serio lo sdrammatizzante understatement da claim pubblicitario proposto dall’artista (“Pornobello è ritorno alla fantasia per una pornografia a colori!”): l’occhio alla fine cade là, accento o apostrofo rosso, affermazione o elisione. Il compiacimento per un apparente disinnesco della circolarità di eros e thanatos, operato dall’ironia che libera dall’ansia e dall’ebbrezza dell’onanismo, non cancella la retro-consapevolezza di un’ineludibile, vitale commistione di osceno e spirituale, banale mistero d’un eterno vincolo di natura.

Paolo Ferrari, gennaio 2010

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